Il tradizionalismo nelle fonti

Abbiamo spesso parlato di “fonti” su Ad Maiora Vertite, tuttavia, trovandomi a conversare con varie persone, mi sono reso conto che il concetto di “fonte” non è molto chiaro, né è da molti compreso quanto possa essere utile allo studio storico, e -soprattutto- ad un percorso di crescita personale e di miglioramento.
Di qui ho provato la necessità di scrivere questo articolo.

Iniziamo col dare una definizione al concetto di fonte:
<tutti i resti del passato, materiali o immateriali, scritti o non scritti, prodotti intenzionalmente da chi ci ha preceduto per lasciare memoria di sé e delle proprie azioni, o risultato meccanico delle varie attività umane> (F.Senatore 2008)

Analizzando questa frase vediamo che una fonte non è un qualsiasi testo prodotto, ma un testo prodotto nell’epoca che dobbiamo studiare, o quanto più prossima possibile a quella. Essa può essere materiale, tangibile, visibile, o immateriale (per esempio un mito, o una narrazione orale). Può essere scritta, come un testo antico, o non scritto come un deposito votivo. Prodotto intenzionalmente, come un donativo, o un libro, una statua, un edificio, o il risultato meccanico dell’azione umana (ad esempio una fossa con i resti di sacrifici, o una discarica come può essere il Monte Testaccio).

Più brevemente Paul Kirn l’ha definita <ogni testo, oggetto o manufatto da cui si può ricavare una conoscenza del passato> (P. Kirn 1968).

Infatti il termine stesso “fonte” non venne scelto a caso, bensì perché la fonte è quella vena d’acqua a getto continuo da cui nascono i fiumi. È il punto originario: infatti dalla nuda roccia sgorga l’acqua che poi si mescola, si ingrandisce, si sporca, fino a giungere al mare.
Similmente la fonte è l’informazione prima, la più vicina all’origine degli eventi.
Mentre noi -che scriviamo oggi- siamo distanti da quelli, siamo presso la foce, e alla purezza dell’acqua surgiva aggiungiamo i sedimenti della nostra bassa posizione, che, depositandosi, estenderanno la lunghezza del fiume per le generazioni future che scriveranno (speriamo!) dopo di noi.

Perciò è del tutto falsa l’idea comune che si possa considerare fonte qualsiasi testo scritto (come qualcuno mi disse, citandomi -come fonte sull’età classica- un libro pubblicato nel 2008).

Tuttavia le fonti non sono tutte uguali.
Le fonti materiali in genere sono difficili per noi da interpretare (in quanto non “si esprimono”), e si possono analizzare quasi solo confrontandole con altre fonti note. Quando ero all’università a scavare sull’ arx di Veio (nei pressi di quello che forse era il famoso tempio a Giunone) trovammo un oggetto in bronzo triangolare con alcuni elementi decorativi. I miei superiori lo studiarono per settimane alla ricerca di qualcosa di simile, per capire di cosa si trattasse: un gioiello? Una parte di un oggetto più grande? Un puntale? Un oggetto rituale (dicitura in codice per dire “non abbiamo idea di cosa sia”)?
Non so come sia andata a finire, ma alla fine dello scavo non si era capito cosa fosse, e venne catalogato come “oggetto metallico”. Tutto questo per dire che un oggetto materiale si può identificare solo in presenza di un suo simile che possa spiegarlo (se avessimo avuto un oggetto intero contenente quel pezzo, o un testo che ce lo descrivesse, sapremmo cos’è).

Al contrario una fonte scritta si esprime di per sé, ma non ha materiale concreto per dimostrare quanto dice. Quindi se per capire una fonte materiale abbiamo bisogno di un confronto, nella fonte scritta il confronto serve per confermare, dubitare, o negare quanto viene detto.
È palese che se nell’Ab Urbe Condita di Livio è citato il tempio di Giove Statore, la sua esistenza può essere dubbia. Ma se viene trovato un tempio, contemporaneo agli eventi narrati da Livio, proprio in quella posizione, allora contemporaneamente la fonte scritta ci permette di identificare l’oggetto materiale, e la fonte scritta viene confermata dalla presenza dello stesso materiale.

La fonte scritta tuttavia non esprime sempre e con certezza il dato oggettivo, ma il punto di vista dell’autore. Infatti anche chi scriveva era un essere umano come noi (se parliamo dell’evo antico sicuramente era migliore di noi, ma con questa frase intendiamo la cosa in senso strettamente biologico), ed aveva un proprio punto di vista, aveva scopi precisi nello scrivere, se non addirittura gli era stato commissionato.
Voglio fare, a tal proposito, un esempio volontariamente polemico: quando Ottaviano istituì il principato ha la necessità di spiegare, e fare convinto il popolo romano, che egli aveva diritto a sedersi come fosse un re sul trono di Roma. Quella stessa Roma che aveva cacciato i re etruschi, e che giurò che mai ne avrebbe tollerato il ritorno, e che ora si trova con un princeps, il quale fin dal primo giorno -nella parte orientale della Res Publica- chiamano “basileus” (= re). Per giustificare questa cosa, e giustificare tutte le rivoluzioni -anche religiose- che egli passa per “restaurazione”, il princeps incarica diversi autori di scrivere testi a sostegno del principato. Tra questi c’è anche Virgilio, che nella sua magnifica Eneide (ancora oggi glorificata come il non plus ultra della letteratura latina) non fa altro che rivedere (o ricreare) il mito di Enea, ispirandosi ad Omero, al fine di giustificare il fatto che la gens Iulia, e quindi per adozione anche Ottaviano, aveva il diritto per eredità di sangue di governare Roma come una monarchia mascherata da repubblica restaurata.
Perciò l’Eneide può essere considerata fonte attendibile per tante cose: esempi di riti, invocazioni, informazioni religiose, alcuni aspetti del mito di Enea, varie nozioni di ogni genere e grado, ma certo non per sostenere la legittimità al potere di Ottaviano.
Similmente le Res gestae Divi Augusti sono una fonte quantomeno parziale per analizzare la figura di Ottaviano dato che se lo è scritto da solo.

In altri casi la validità di una fonte può essere giustificata dalle fonti che esse stesse ha usato. Abbiamo ad esempio frammenti di testi repubblicani che si sono salvati (se non nella trascrizione almeno nel contenuto anche se frammentario) perché utilizzati da fonti più tarde. Un esempio sono i libri dei pontefici, che non abbiamo perché distrutti dalle religioni orientali, ma spesso citati da altri autori la cui validità viene a confermarsi.

È chiaro quindi che anche le fonti scritte risultano parziali, tuttavia sono le più complete che abbiamo, in quanto ci forniscono molte informazioni spiegandoci gli avvenimenti.

In molti sostengono che lo studio delle fonti sia del tutto inutile, ed un mero lavoro da boriosi topi da biblioteca. Tuttavia vorrei ricordare a costoro che in mancanza di quelle non sapremmo nulla dell’evo antico. Ad esempio il ritrovamento di una manciata di rostra non sarebbe sufficiente a dirci delle Guerre Puniche se mancassimo di Ennio, Polibio, Livio e gli altri autori che ci raccontano di quegli eventi. Se non avessimo delle fonti scritte, per noi, tutto quel che è accaduto “prima” sarebbe come preistoria: una manciata di oggetti dal dubbio significato grazie ai quali possiamo solo parlare di concetti vaghi come “faces”, o come “cultura di”, senza la possibilità nemmeno di dare un nome allo scavo di un preciso villaggio. Ed avremmo persino dubbi sul fatto che sia mai esistito un Impero Romano.
E certamente non sapremmo nulla, assolutamente nulla, sulla Religione Romana.

Perciò con tutti i loro limiti, le fonti scritte, sono il meglio che abbiamo a disposizione.
Per altro, la Tradizione è ciò che viene tramandato. E quel che gli antichi ci hanno tramandato è proprio quel che c’è scritto nelle fonti. Le nostre fonti sono proprio il modo in cui i nostri antenati ci hanno tramandato la Tradizione.
Possiamo certamente dire che non c’è altra Tradizione all’infuori delle fonti.

Perciò tutto quello che è al di fuori della fonte, che -lo ripeto- è la nostra Tradizione, è esegesi, interpretazione, aggiunte, analisi, considerazioni, riflessioni. Dunque a chi piace Evola -ad esempio- deve considerarlo come esegesi, nel proprio percorso tradizione, non come Tradizione: poiché la Tradizione tramandata da Evola nasce al tempo di Evola, e non al tempo di Seneca. In altre parole possiamo dire che si può -se si vuole, per chi volesse- interpretare la Tradizione Romana con un occhio moderno, ma di certo non si può fare il contrario. Infatti nel nostro caso la Tradizione, ovvero la fonte, è sempre e comunque il centro della questione, intorno a cui ruotano nuove idee, interpretazioni, pratiche ed applicazioni concrete (comprese le integrazioni in caso di lacune).
La Tradizione, la fonte, è immutabile ed immobile in quanto riferita al “passato” ed in quanto scritta (scripta manent), tutto quel che si aggiunge dopo come considerazioni ed analisi (compreso molto di quel che scriviamo qui su Ad Maiora Vertite) è sempre e soltanto esegesi, più o meno plausibile, più o meno condivisibile.
L’interpretazione può mutare, anche alla luce di nuove scoperte, ma la fonte, la Tradizione, rimane a perenne ed imperitura memoria dell’insegnamento dei nostri Antenati. Ovvero di quel che dobbiamo imparare sulla nostra Tradizione.

Quando perciò vi trovate davanti a studiosi (tradizionalisti romani, e non) che decidono di rifiutare certi eventi citati nelle fonti, perché gli risultano poco coerenti con il quadro (in genere prederminato da essi stessi, e frutto di mera emotività), o con la giustificazione che l’autore era mosso da secondi fini, ricordatevi le parole di Sallustio:
<Quanto a me, sebbene non pari gloria segua chi scrive e chi compie le imprese, tuttavia mi sembra oltremodo arduo scriverne le gesta:
primo perché bisogna equiparare le parole ai fatti;
secondo perché, nel riprovare i delitti, i più riterranno le tue parole dettate dalla malevolenza, e nel narrare il grande valore e la gloria dei buoni, ognuno accoglierà di buon animo ciò che crede di poter agevolmente fare, ma ciò che ne è al di sopra crederà falso come parto di fantasia.>
(De Coniuratione Catilinae, 3)

E con queste poche righe viene a confermarsi quanto detto. Infatti così come molti sostengono che non c’è mai stato un Furio Camillo, e che era personaggio di fantasia, solo perché essi stessi non sarebbero mai stati in animo di fare quel che ha fatto lui; similmente si vuol negare quanto dice uno Svetonio o Tacito, a proposito di Ottaviano o di Cesare, accusandolo di malevolenza.
E la bontà di quanto è scritto nelle fonti è -per altro- stata dimostrata anche da A. Carandini che negli scavi sul Palatino riuscì a dimostrare che la Fondazione di Roma è avvenuta in modo del tutto simile (nei punti salienti) a quanto narrato nel mito, cosa che fino a cinquanta anni fa si pensava frutto di fantasia. Forse perché -come dice Sallustio- nessuno di quegli uomini avrebbe mai potuto “fare agevolmente” quelle azioni.
Perciò quando troverete qualcuno che accusa di malevolenza una fonte, saprete che la sua è difesa di un’idea aprioristica.
Mentre -peggio ancora- quando troverete qualcuno che nega le fulgide gesta dei grandi uomini del passato citate nelle fonti, saprete che egli ha un cuore di certo peggiore rispetto ai nostri Maggiori.
E poiché è la maggioranza a ritenere quelle gloriose gesta non siano mai avvenute, e frutto di esagerazione dell’annalistica romana, di propaganda, di mito e di esaltazione, si conferma nuovamente che non è ipotesi l’idea che ad ogni generazione gli uomini siano peggiorati sempre più.
Infatti si dà per certo che una sorta di “mitologica predestinazione” imponga ad ogni generazione di ritenere la successiva peggiore e la precedente migliore, quasi che un unico grande complotto vada ad influenzare la mente dei molti miliardi di uomini vissuti ieri ed oggi in ogni parte del mondo. Mentre ritengo ben più probabile, semplicemente spiegabile, e confermato dal confronto di quanto dicono le fonti antiche rispetto alla situazione odierna, che effettivamente ad ogni generazione si vada sempre più peggiorando. E tanto più si peggiora, tanto più si negano gli eventi antichi, si ignorano, si dimenticano, e si smettono di prendere ad esempio di virtù.
Infatti molte delle lamentele che gli autori latini fanno criticando le nuove generazioni, oggi sono considerate cose normali, per le quali non vi è nulla da criticare: eppure riflettendoci esse sono proprio cose deprecabili, tanto che ormai non vi è più nessuno che rimanga a ricordare l’antico ed incorrotto costume.

Già prevedo che qualcuno dirà <soliti discorsi da vecchio borioso, un miscuglio di “si stava meglio quando si stava peggio” e “non ci sono più le mezze stagioni”> (come mi capitò già di leggere tra i commenti di un video che pubblicammo mesi addietro).
A costoro rispondo preventivamente con brevi argomentazioni:
1) non sono vecchio, non ancora;
2) quando si stava peggio la gente non era avida come oggi, dove tutti hanno un cellulare per chattare con le persone distanti un metro. Quando non vi erano migliaia di divieti, perché c’era la responsabilità personale. Quando le città erano pulite non grazie alla bontà delle amministrazioni, ma alla civiltà degli abitanti. Giusto per fare un paio di esempi concreti ed innegabili, che nella diretta esperienza personale possiamo ricordare.
3) le mezze stagioni non ci sono più per davvero, vi invito a fare uno sforzo di memoria ricordandovi com’era il clima quando eravate bambini.

E proprio al fine di combattere certi modi sciocchi di connettere il cervello con la bocca (il ragionamento infatti è ben altra cosa), bisogna leggere le fonti latine. Perché queste insegnano a ragionare, insegnano a mantenere l’attenzione, insegnano a seguire un filo logico nelle sentenze, insegnano a produrre ragionamenti coerenti, insegnano a parlare (produrre concetti, anziché guaire 6500 versi che solo per convenzione chiamiamo “vocaboli”). Ma danno anche indicazioni su come vivere bene, nel quotidiano, ad accettare gli eventi, a combattere ad armi pari con la Fortuna, così che nessun evento negativo possa mai piegarvi o spezzarvi.
Ma è un esercizio quotidiano.
Infatti la mente è come un campo: se fino ad oggi l’avete quotidianamente arato con le sciocchezze su FB, con i telegiornali, con netflix, ed avendo come unica lettura qualche romanzo e prodotto di fascinosa fantasia, il solco sul vostro terreno sarà profondo ed indirizzato a seminare soltanto quel tipo di piante.
Ma se vorrete trovare un qualche personale miglioramento, dovrete sforzarvi di cambiare direzione, e nuovamente incidere solchi che vanno in un’ altra direzione, di tipo diverso. Sostituendo a tutto quel tempo dedicato all’intrattenimento, la lettura di autori nobili, che abbiano qualcosa da insegnare: Cicerone, Seneca, la prima decade di Livio, Marco Aurelio, Sallustio, questi sono i Maestri che vi insegneranno ad essere tradizionalisti non solo per le nozioni, ma per quotidiano battere e ribattere il ferro della vostra vita, affinché da malleabile e dolce strumento manipolato dall’ultima notizia dell’ansa, si trasformi in solido acciaio che sia di vostra unica proprietà.
Essere schiavi di un pensiero imposto dall’esterno (per quanto facile e per nulla frustrante) vi rende alieni iuris (proprietà di altri) non vi rende liberi, non vi rendere sui iuris (di vostra proprietà), quindi non vi rende cittadini romani, e perciò non vi rende Tradizionalisti.

 

Emanuele Viotti

Un commento su “Il tradizionalismo nelle fonti”

  1. Carissimo Emanuele, sicuramente le mezze stagioni non ci sono più, nemmeno qui in America Latina…scherzia a parte il mio commento è per rinnovarti i complimenti. Avanti tutta! Mi piace moltissimo studiare su questo sito scritto considerando le fonti come devono esser considerate. Grazie

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